Prima di acquisire il “nome d’arte” Palladio, il noto architetto era conosciuto come Andrea di Pietro della Gondola, un patronimico.
Ma che lavoro faceva il papà di Andrea? Il mugnaio. La relazione tra il mestiere di costui e la famosa imbarcazione veneziana è presto spiegata. In un tempo in cui le pale dei mulini erano azionate sfruttando soprattutto l’energia idrica, non era insolito vedere uomini come Pietro risalire il fiume più volte al giorno, su grosse barche -tipicamente venete- cariche di sacchi di grano e farina da trasportare tra i numerosi mulini disseminati lungo le rive dei corsi d’acqua.
Nel territorio vicentino, fino all’inizio del Novecento (quando furono introdotti i motori a vapore) esistevano centinaia di mulini da cereali, e altrettanti erano coloro che praticavano l’arte: i cosiddetti munàri. Produttori e commercianti di un genere alimentare di prima necessità, i mugnai occupavano una posizione sociale di tutto rispetto, essi sapevano leggere, scrivere e far di conto, possedevano spesso qualche appezzamento di terra e un bel cavallo da tiro… erano un ottimo partito per le giovani donne del villaggio!
Strettamente legato al munàro era la figura del fornaro, il fornaio, ovvero colui che produceva il pane. Anche se la
polenta rimaneva il cibo base della dieta delle classi rurali, nella città di Vicenza e nei centri maggiori della provincia il consumo di pane rappresentava una forma assai diffusa di alimentazione. Si produceva il pane bianco o il più economico pane moro (con la farina grezza) e il pan biscotto che conservava bene il suo sapore per diversi giorni. I forni erano di piccole dimensioni, costruiti artigianalmente con un piano di cottura coperto da soffitto a volta. Avevano un’apertura sul davanti che veniva chiusa da una porticina di ferro o ghisa. La manodopera era prevalentemente costituita dal proprietario del forno e dai suoi familiari, con la collaborazione, talvolta, di un garzone a cui si insegnava il mestiere e si dava vitto e alloggio. Il lavoro del fornaio era fra i più duri: egli doveva alzarsi nel cuore della notte per lavorare l’impasto preparato il pomeriggio prima e lasciato lievitare col levà (lievito madre). Ne ricavava dei grossi filoni che venivano poi passati alla gràmola, un arnese di legno usato per spezzettare i filoni di pasta in porzioni di uguale grandezza che venivano poi modellati nelle diverse fogge desiderate: ciòpe, mantovane, borèle,… Dopo un altro paio d’ore di lievitazione, le forme venivano immesse nel forno precedentemente pulito e liberato dalla cenere, così che nelle prime ore del giorno la gente potesse correre a comprare il pane appena sfornato, morbido e fragrante.
Un vero artista del pane fu Massimiliano Saggiorato, della zona di Noventa Vicentina, che nel primo Novecento costruì un forno di mattoni vicino alla grande casa rurale dove la famiglia abitava da generazioni, all’interno della “corte” cinta da mura con l’aia, le barchesse, i porticati, la stalla, il pozzo, la ghiacciaia e la legnaia: un vero villaggio in miniatura! Il profumo del suo pane risvegliava tutta la comunità, e quando soffiava lo scirocco chissà, forse arrivava alle narici dei signori di quella storica, splendida villa settecentesca che ancora oggi possiamo ammirare nella campagna poco distante.
Fonti:
Ricerca dell’istituto Rezzara, Volti della civiltà rurale vicentina, Ed. Rezzara, Vicenza, 1999
Mestieri e Saperi fra città e territorio, a cura di Giovanni Luigi Fontana e Ulderico Bernardi, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1999